sabato 12 gennaio 2013

Recensione: PATMOS di Pina Allegrini (Edizioni Noubs)

È una voce sferzata dal dolore e dal tempo quella aleggiante nel libro di versi di Pina Allegrini ispirato all’isola del Dodecaneso dove intorno al 95 d.C. Giovanni l’Evangelista patì l’esilio. All’impoverimento progressivo della forma poetica italiana dopo l’abbandono del verso metrico – che ha trovato come improbabile surrogato il cosiddetto verso interiore – solo pochissimi autori sono in grado di sopperire con la verticalità di un respiro lungo – per così dire incrociante il fantasma dell’endecasillabo perduto. La Allegrini è certamente tra questi – oltre che insigne signora della letteratura d’Abruzzo, con la Ventura, la Giancarli e pochissime altre, è insieme alla veneta Patrizia Valduga “tra le più significative altezze della poesia italiana di questi anni”, scrive a ragione, come spesso gli capita, Pamio, autore con la Bonincontro, la Rando e un raffinato poeta come Marciani di densi scritti in appendice.
“L’astuzia perfetta e vincolante / di quest’isola su cui solo t’invoco / ombra di un’ombra morte di una morte”, grida metricamente Giovanni, nel compimento mistico della sua esperienza terrena formalizzato dall’autrice in una forma scabra, dove la spezzatura del ritmo è lo spasimo di una sequela, di un percorso ben oltre la conoscenza. Da noi in pochi ma eccelsi casi si è verificato un incontro tra il verso e la ricerca spirituale – e forse quella di Testori è su tutte l’esperienza più sconvolgente. Dell’autore di Interrogatorio a Maria la Allegrini riprende – segno o piuttosto bagliore di una difficile tradizione nazionale? – la consistenza fortemente materica della scena, arida di deserti geografici e d’anima, imponendovi trafitture lancinanti tutte personali, come nella mirabile invocazione di Giovanni all’omonimo Precursore: “mio riflesso / mio nome, scorpione occulto, insonne / bilanciere tra il veleno e la fiamma / dentro il fulgore del sole c’è la neve”.
Di amabile e al contempo drammatica lettura, Patmos riscopre la religiosità di una parola confitta nel cuore palpitante della Storia, dove mistero e miracolo possono sgorgare ancora, anche davanti a opacizzati occhi contemporanei. E fa piacere sottolineare come nel tempo di uno pseudo-poetico panorama di massa – così ridondante di narcisismi futili – una voce femminile italiana vibri con la potenza del vero sentire – dimentica di sé, tesa all’ascolto di “tramonti che sigillano o spalancano visioni”.

Marco Tornar



Pina Allegrini
PATMOS
Noubs, 2009
pp. 64, Euro 10,00




venerdì 11 gennaio 2013

Recensione: RICORDI DI PARIGI di Edmondo De Amicis (Edizioni Solfanelli)


Edmondo De Amicis (1846-1908) è un autore oggi ricordato quasi esclusivamente per Cuore, opera che riscosse uno straordinario successo fino alla prima metà del Novecento, per essere successivamente sempre più spesso fatta oggetto di riserve e perplessità, dapprima rispetto al contenuto ideologico, e poi anche riguardo al suo effettivo valore letterario.
Ma De Amicis fu anche un celebre giornalista, inviato de “La Nazione” e de “L’Illustrazione Italiana”, e in questa veste pubblicò molti reportages di viaggio poi riuniti in volume: da Spagna (1871 e 1873) a Ricordi di Londra (1874), da Olanda (1874) a Marocco (1876), fino ad arrivare a In America (1897) e Ricordi di un viaggio in Sicilia (1908).
Ricordi di Parigi fu frutto di due diversi soggiorni, effettuati nel 1873 e 1878, in seguito ai quali il libro uscì per l’editore Treves dapprima nel 1875 e successivamente, accresciuto, nel 1879 (ed è l’edizione che oggi viene riproposta da Solfanelli). Diviso in cinque capitoli, presenta tra l’altro il reportage fatto da De Amicis dall’Esposizione Universale del 1878, nonché gli incontri avuti con Victor Hugo e Émile Zola.
Folgorante già l’inizio del libro: “Siamo discesi alla stazione della strada ferrata di Lione, alle otto della mattina, con un tempo bellissimo. E ci trovammo subito imbarazzati. Avevamo letto nei giornali che i fiaccherai di Parigi spingevano le loro pretese fino al punto di non voler più trasportare persone grasse. Io feci osservare al Giacosa che noi due eravamo fatti apposta per provocare e giustificare un rifiuto sdegnoso del più cortese dei fiaccherai. Egli s’impensierì, io pure. Avevamo indosso, per giunta, due spolverine che c’ingrossavano spietatamente. Come fare? Non c’era che da tentare di produrre un po’ d’illusione avvicinandosi a una carrozza a passo di contraddanza e interpellando l’uomo con una voce in falsetto. Il tentativo riuscì. Il fiaccheraio ci rivolse uno sguardo inquieto, ma ci lasciò salire”.
Siamo decisamente molto lontani dalle atmosfere cui siamo abituati a collegare l’aggettivo “deamicisiano”... La descrizione della metropoli in piena attività è scintillante, caleidoscopica, travolgente. Febbrile come ottant’anni anni dopo saprà esserlo il montaggio cinematografico in alcuni film underground che rappresenteranno l’universo di grandi città inglesi o statunitensi. “Ah Parigi! Maledetta e cara Parigi! Sirena sfrontata! È proprio dunque una verità che bisogna fuggirti come una furia o adorarti come una dea?”.
Il resoconto della visita all’Esposizione pure presenta momenti memorabili, spesso descritti con icasticità sospesa sul filo dell’ironia: “Uno spettacolo unico al mondo, veramente; immenso, splendido e bruttino, che innamora. [...] Sì, è un po’ una cosa da teatrino, ma bella; un grazioso scherzo combinato da venti popoli, ingegnosamente; mezzo mondo veduto di scorcio; la via d’una grande città di là da venire, in un tempo di fratellanza universale, quando saranno sparite le patrie. A primo aspetto non sembra che una splendida bizzarria, e si pensa che il mondo ha avuto un quarto d’ora di buon umore. [...] Ma dopo [...] lo spettacolo muta significato. Allora da ognuna di quelle facciate esce un’idea, l’espressione di un sentimento diverso della vita, e come un soffio d’aria d’un altro cielo e d’un altro secolo [...] porta il suono di musiche lontane, piene di pensieri e di memorie.”
La scrittura di De Amicis è una bellissima “scrittura di viaggio”. Ma è nondimeno affascinante il resoconto degli incontri con i due grandi scrittori francesi. Colpisce la deferenza e l’entusiastica ammirazione con cui De Amicis si accosta al “mostro sacro” Victor Hugo, e ci si ricorda improvvisamente che all’epoca l’autore non aveva più di 32 anni — si assapora ancor più, quindi, la mirabile e a tratti esilarante descrizione dell’incontro di un ancor giovane scrittore (il travolgente successo di Cuore arriverà nel 1886) con il proprio “mito”.
Scrive De Amicis dello stile di Hugo: “Nello stesso tempo dolce e tremendo, fantastico e profondo, insensato e sublime, egli mette accanto a una stramberia rettorica che rivolta, la rivelazione d’una grande verità che fa dare un grido di stupore. [...] Dalla prima all’ultima pagina è sempre presente, e ci fa della lettura una lotta. Ci caccia innanzi a spintoni, ci solleva, ci stramazza, ci rialza, ci scrolla, ci umilia, ci travolge nella sua fuga precipitosa, senza dar segno d’avvedersi che noi esistiamo”; bellissime poi le pagine in cui De Amicis discetta sulla “coscienza del proprio genio” da parte dello scrittore francese — ma il tutto viene poi stemperato nell’incontro reale, umano, con l’autore de I miserabili.
D’altra parte, il ritratto letterario di Zola ben rende — “in presa diretta” — l’impressione destata, e l’importanza che rivestiva il naturalismo (ma giustamente De Amicis parla di “realismo”) dello scrittore francese agli occhi dei suoi contemporanei, sia a livello stilistico che di tematica: “Egli ha buttato in aria con un calcio tutti i vasetti della toeletta letteraria e ha lavato con uno strofinaccio di tela greggia la faccia imbellettata della Verità”.
Al di là dell’“aneddotica” (piacevolissima) legata agli incontri, si tratta di veri e propri studi critici su questi due autori, acutissimi da parte dell’autore e impreziositi ovviamente dalle testimonianze degli autori stessi. Valga come esempio quanto dice Zola a proposito del suo modo di procedere nella scrittura di un romanzo: “Ecco, come faccio il romanzo. Non lo faccio affatto. Lascio che si faccia da sé. Io non so inventare dei fatti; mi manca assolutamente questo genere di immaginazione. Se mi metto a tavolino per cercare un intreccio [...] sto anche lì tre giorni a stillarmi il cervello [...] e non riesco a nulla. Perciò ho preso la risoluzione di non occuparmi mai del soggetto. Comincio a lavorare al mio romanzo, senza sapere né che avvenimenti vi si svolgeranno, né che personaggi vi avranno parte, né quale sarà il principio e la fine. Conosco soltanto il mio protagonista, [...] che è una conoscenza antica”.
Il che suona, peraltro, di straordinaria modernità.

Sandro Naglia


Edmondo De Amicis
RICORDI DI PARIGI
a cura di Maria Lucia Zito
Solfanelli, 2012
pp. 184 - Euro 14,00


martedì 8 gennaio 2013

Recensione: LA STANZA BUIA di Leonard Cline (Edizioni Solfanelli)


Una interessante riscoperta, questa di Leonard Cline: scrittore, traduttore e giornalista americano nato nel 1893, autore di due raccolte di poesie e tre romanzi, tra i quali The Dark Chamber, apparso nell’agosto del 1927, un mese prima che l’autore venisse condannato a un anno di carcere per l’omicidio di un amico che lo aveva aggredito durante una lite. Cline, nel periodo di detenzione, scrisse anche sotto lo pseudonimo di Alan Forsyth; rilasciato nel luglio del 1928, fu trovato morto sei mesi dopo nel suo appartamento di New York.
Autore colto, coltissimo, aggiornato sui maggiori scrittori suoi contemporanei (cita Eliot e Hamsun, tra gli altri), con competenze musicali straordinarie (il protagonista/io narrante del romanzo è un musicista, e le pagine sulla musica sono di grande profondità e sensibilità), capace di una prosa nello stesso tempo scorrevole e immaginifica, che da un’elegante asciuttezza riesce a passare senza soluzione di continuità a un lirismo di marca quasi fitzgeraldiana (l’incipit del romanzo: “Ieri era ancora estate in città, una fine estate stanca ed estenuata, con una vaga tristezza nell’aria che si trascinava come una vecchia gonna in fondo a un fossato”) — Cline  inserisce nella migliore tradizione narrativa del romanzo “gotico” (The Dark Chamber fu particolarmente apprezzato da Lovecraft, tra gli altri) meccanismi da “giallo” con tocchi di horror, chiaramente ispirandosi a Poe.
Ma colpiscono, nel contesto della trama che ha a che fare col recupero memoriale, più di un passaggio di chiara ispirazione proustiana (“Così un odore può richiamare un altro odore collegato a un’immagine mnemonica ed evocarla nella sua interezza. Il velo si solleva per un istante, la polvere torna ad assumere le fattezze antiche, nel presente si apre uno squarcio da cui si può scorgere il passato nella sua vivida bellezza”: p. 29 — la settima e ultima parte della Recherche fu peraltro pubblicata proprio nel 1927), come pure inserti di matrice psicoanalitica (junghiana più che freudiana — Eugen Bleuler, uno dei maestri di Jung, viene citato nel libro) che confermano ulteriormente l’attenta partecipazione dell’autore alle più feconde tendenze culturali del suo tempo.
Ottime traduzione, presentazione e curatela del volume da parte di Fabrizio Sandrelli.

Sandro Naglia



Leonard Cline
LA STANZA BUIA
Traduzione e cura di Fabrizio Sandrelli
Solfanelli, Chieti, 2012
pp. 200 - Euro 15,00