venerdì 14 dicembre 2012

Recensione: CAOS IPERMETRICO di Giancarlo Giuliani (Edizioni Tabula fati)


Al limite ignoto del dolore, sotto un sole che brucia le parole, / vivo momenti già scritti, attore di un gioco / sconosciuto”: già dall’incipit del poemetto che dà il titolo a questa raccolta, il lettore è chiamato a confrontarsi con un respiro poetico di ampiezza sinfonica, che sviluppa premesse stilistiche già presenti nelle sillogi precedenti dell’autore, ma che apre anche nuove prospettive nella sua poetica.
La poesia di Giancarlo Giuliani è poesia di conoscenza, tentativo di trasmutazione alchemica della realtà alla ricerca del metallo nobile che dia senso e solidità al vissuto — ricerca vana in partenza, e riconosciuta come tale: “non c’è arrivo / previsto, solo nuove partenze, illusione di una possibile fine”. Panta rei, e il Viandante scorre con e nella vita, solo più consapevole della vanità delle cose. È questa la conoscenza.
Ma per arrivarci bisogna aver percorso strade (anche e soprattutto quelle “Ad Inferos” della più trista vita quotidiana, cui è dedicata la parte centrale del libro, con un solo apparente “scarto” stilistico), aver avuto il coraggio di scegliere di fronte a bivii, osato mantenere la direzione anche se sbagliata. Gli ideali e i sogni sono armi a doppio taglio: “Mi chinai un giorno sull’amico a terra / e nel sangue rappreso vidi la vita / futura, cercai con dita tremanti il segno / di un respiro, sentii morire per sempre la gioia”. E il Labirinto, infine, resta la metafora più convincente della nostra esistenza.
Eppure raccontarlo, questo labirinto, è possibile: anche se “Non abbiamo parole per i versi che mancano. / Ciò che ci spinge non è l’illusione del cerchio, / ma la spirale: suggerisce movimento infinito”, tuttavia siamo spinti “a cercare, morire / rinascere nella tensione / a ciò che sta oltre i limiti dell’uomo”.
E, come nell’Anabasi senofontiana, è possibile pensare che un giorno la visione del punto d’arrivo si manifesti (“Thalatta! Thalatta!” è appunto il titolo di una poesia della raccolta), ma il senso dell’esistenza, come spesso ribadiscono i filosofi d’Oriente, è nel cammino. Può tuttavia confortarci l’Arte, e non sarà un caso che accanto alla fede nella parola, si affaccino spesso nella silloge citazioni e riferimenti musicali: la Musica, secondo Schopenhauer, è una delle vie per affrancarci dal dolore di vivere...
Ezra Pound, Dylan Thomas sono sicuri riferimenti letterari dell’autore: il primo proprio per il sinfonismo che ingloba anche il polilinguismo e le citazioni, parte integrante del fluire poetico; il secondo per l’uso di figure e metafore che tentano di forzare il diaframma del visibile con immagini inedite e sorprendenti. Tra l’uno e l’altro, come a completare una Trimurti, la presenza di T. S. Eliot, che a sua volta aveva tentato una peculiare commistione tra musica e poesia.
Ma anche un altro filosofo è sicuramente presente nel substrato culturale e poetico dell’autore: Friedrich Nietzsche, soprattutto quello del Così parlò Zarathustra. E, proprio parafrasando una nota massima del filosofo tedesco, si potrebbe concludere dicendo che solo da un caos ipermetrico si può generare una poesia di conoscenza.

Sandro Naglia


Giancarlo Giuliani
CAOS IPERMETRICO
Tabula Fati, 2012
pp. 56 - Euro 7,00


sabato 8 dicembre 2012

Ultimi incontri del 2012 dell'Università Liberetà "Federico Caffè"


Ultimi incontri del 2012 dell'Università Liberetà "Federico Caffè".

– lunedì 10 dicembre, alle ore 17:00, presso la sala della CGIL in via B.Croce 108, lezione del prof. Luigi Collevecchio sulla storia del Novecento "Riflessioni sulle possibili definizioni del ventesimo secolo",

– mercoledì 12 dicembre, alle ore 17:00, nella sala CGIL, via B.Croce 108, lezione di Giacomo D'Angelo sul tema "Gli abruzzesi e la Grande Guerra. Tra storia e letteratura".

Le lezioni dell'Università riprenderanno nel gennaio 2013.

mercoledì 5 dicembre 2012

Recensione. UN AMORE NELLA BUFERA di Marino Solfanelli (Edizioni Tabula fati)


In tempi di “revisionismi”, interpretazioni storiche “alternative”, “negazionismi” e polemiche sociopolitiche varie, esce questo breve e denso racconto, una delicatissima storia d’amore ambientata, o meglio: intrecciata al convulso momento della Seconda Guerra Mondiale seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, che divise letteralmente l’Italia in due — i protagonisti del libro sono appunto due giovani combattenti che hanno aderito alla Repubblica Sociale.
Il 14 ottobre 2001 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in un discorso tenuto in occasione di una cerimonia sulla Resistenza, ricordò “quei giovani che allora fecero scelte diverse e che le fecero, credendo di servire ugualmente l’onore della propria patria”, innescando asprissime polemiche da parte di coloro che ritennero inaccettabile la sostanziale equiparazione di Resistenti e Repubblichini.
La Storia la scrivono i vincitori: ce lo ha recentemente ricordato, da tutt’altro ambito politico, il bellissimo film di Mario Martone Noi credevamo, tratto dal romanzo di Anna Banti; e una cosa è la Storia, altra gli esseri umani che vi sono dietro, soprattutto i giovani idealisti — di ideali giusti o sbagliati che sembrino. Come giustamente sottolinea la quarta di copertina di questo volumetto: “Una vicenda su cui riflettere, soprattutto da parte di chi con troppa facilità esprime condanne irrevocabili, dimenticando che dietro gli avvenimenti della storia ci sono le vite di uomini e donne che, pur nella diversità dei convincimenti, non possiamo che chiamare fratelli e sorelle”.
L’autore del racconto è chiaramente persona ideologicamente coinvolta nel contesto storico in cui ha ambientato la sua opera; il recensore che scrive — di diversa ideologia — ha tuttavia avuto in famiglia persone che vissero da vicino quel momento. Trovo che questo racconto — innanzitutto di bella scrittura: nitida e di valore letterario — sia utile proprio per intendere “le ragioni degli altri”, e il senso di sconfitta e di amarezza che aleggia nelle pagine è parte integrante del suo fascino.
Ideali e gioventù, fede e fanatismo, Realpolitik e senso dell’onore; la citazione potrà, in questo contesto, sembrare bizzarra, ma mi viene da ripensare alla conclusione del concept album dei Pink Floyd The final cut, incentrato sul secondo conflitto mondiale (e sui conflitti a venire) visti dall’ottica di un orfano di guerra: “E infine capisco / I sentimenti dei pochi / Cenere e diamanti / Nemici e amici / Eravamo alla fine tutti uguali”.
Un piccolo, delicato racconto come questo viene a ricordarcelo.

Sandro Naglia


Marino Solfanelli
UN AMORE NELLA BUFERA
Tabula fati, 2012
[ISBN-978-88-7475-270-6]
pp. 56 - Euro 6,00

sabato 29 settembre 2012

Recensione: VIAGGIO IN ABRUZZO CON GIORGIO MANGANELLI di Pino Coscetta (Edizioni Solfanelli)

Appena pubblicato dalla casa editrice Solfanelli, il libro scritto da Pino Coscetta, Viaggio in Abruzzo con Giorgio Manganelli, è un libro doppiamente interessante: ci racconta infatti il viaggio che Giorgio Manganelli fece in Abruzzo nel 1987 per conto della redazione de “Il Messaggero”, da cui nacquero poi splendidi e fulminanti articoli. Pino Coscetta, che appunto accompagnò Manganelli nel tour abruzzese, giornalista anche lui e scrittore, ci permette di vedere la parte del viaggio che in genere non viene raccontata: i preparativi, le difficoltà, gli spunti, le deviazioni, gli incontri, le parole scambiate magari davanti a una buona o pessima cena..o cogliere persino i silenzi.

La letteratura di viaggio ha già di per sé un fascino ineludibile: ma qui siamo proprio dietro le quinte del viaggio. E’ un libro quindi prezioso anche perché contiene una postfazione della sorella di Manganelli, Lietta di cui riporto un piccolo brano: «Ci piace immaginare, la sera, in albergo, Manganelli e Coscetta che, ognuno nella propria stanza, cercano di mettere insieme le immagini e i ricordi della giornata appena trascorsa, uno per trasformare quelle immagini e quei ricordi in fulminanti scritti, l’altro per fissarli nel cuore e nella memoria.» Lietta Manganelli ha dischiuso, con poche parole, il cuore del libro. Quello che leggerete è il diario di un diario, un viaggio accanto ad un altro viaggio. Attraverso i capitoli del libro possiamo ricostruire tutto l’itinerario: Pescina e la valle del Giovenco, Pescasseroli ed il parco, Cocullo Scanno Pacentro e Sulmona, Pescara, Teramo, Atri e Castelli, Chieti e Lanciano, L’Aquila, gli eremi, Corfinio, il Gran Sasso. Un libro nato da una amicizia “durata poco più di tre anni”, e interrotta dalla morte di Manganelli nel 1990.

Ogni pagina ci svela un particolare in più, un dettaglio dell’amicizia tra i due: la ragione di una dedica, un’affermazione, un pensiero comune, una riflessione. Scrive ancora Coscetta: «questo volume ( frutto di pochi appunti e di tanti ricordi), in ogni capitolo ripropone, inseriti nel testo, brevi illuminanti stralci tratti dal dattiloscritto originale che Giorgio Manganelli mi regalò, prima di consegnare al direttore i nove capitoli sul viaggio inchiesta…» Quei nove capitoli sono attualmente contenuti nel libro postumo di Manganelli, La favola pitagorica, edito da Adelphi.

Il primo incontro con l’Abruzzo è quello con Silone, scrittore tra scrittori; l’ultimo è con il Gran sasso, il re della montagna abruzzese , “l’aria d’Abruzzo”. Puntuale itinerario attraverso cui si snoda l’Abruzzo montano e marino, le strade secondarie e le autostrade, le caratteristiche architettoniche o l’acquisto di un oggetto: momenti sorretti da un racconto mai oleografico, che non cede ai luoghi comuni.

Vorrei però soffermarmi in particolare su un capitolo del libro che contiene una promessa : «Da domani conoscerai l’Abruzzo più abruzzese che c’è – dico a Giorgio che seduto davanti alla mia scrivania, insolitamente prende appunti – L’Aquila è una città davvero particolare e per capirla dovremo passare attraverso i suoi cortili.» Oltre ai cortili passano , nelle pagine del libro,il forte spagnolo o Castello, la Fontana luminosa, l’Hotel castello, Piazza Battaglione degli Alpini, la Società aquilana dei concerti, la Fontana delle 99 cannelle, i Quattro cantoni, il bar Centrale e Piazza Palazzo, la cena succulenta al ristorante Ernesto, il Duomo di san Bernardino e la basilica di Collemaggio, il ristorante le Tre Marie, Buccio di Ranallo… Lapidarie, struggenti, delicatissime le impressioni della visita alla città: «mole astratta, levigata, di dura geometria, forte di enormi sproni, il Castello»; «L’Aquila città sommamente musicante»; «a respirare quest’aria montana, a camminare per queste strade dal selciato difficile e da duro pendìo»; «oso dire che riporta ai miei occhi il ricordo di talune fontane dell’oriente islamico, sia di Granada che di Lahore. L’acqua che disegna, che costruisce. Molto orientale.»

Questa topografia, è oggi , per noi, topografia della memoria. Nomi e luoghi oggi pieni di silenzio. L’Aquila è purtroppo una città sospesa, in attesa di tornare ad essere quello che era: e che Manganelli vide, grazie anche alla sapiente guida di Coscetta, in tutti i suoi particolari, anche quelli meno turistici. Scrive ancora Coscetta: «Voltate le spalle alla città che lo ha incantato, con Giorgio, ci avviammo verso un altro Abruzzo. Ma oggi, a 26 anni di distanza, e a tre anni dal terribile terremoto, non riesco a dimenticare l’amorevole attenzione che le dedicò in quei giorni e che riversò, poi, nella puntata dedicata alla città.» Lo stesso Coscetta rivolge un appello agli aquilani di oggi, perché senza quel centro storico «la città sarebbe destinata fatalmente a morire o nel peggiore dei casi a sopravvivere, mutilata svilita e svuotata.»

L’Aquila, la “città polifonica”, così la definì Manganelli per le infinite stratificazioni che si susseguono e si sono composte nel tempo, da quelle romaniche fino a quelle delle città contemporanea, aspetta ancora, nel suo centro storico, di essere ricostruita. Con cura, con attenzione e con sapienza.

«La città antica – scrive Manganelli, – nodo impossibile a sciogliersi di vicoli e strade, è fedele ad una immagine di sé, ferrugginosa, memore di assedi e guerre.»

In questo ultimo assedio, la città ha rischiato di scomparire.

Ma come scrive Paolo Rumiz, un altro inesausto, meraviglioso scrittore-viaggiatore, «finché esistono i nomi esistono i luoghi.» Ed è con questa certezza che continuiamo a sentire attuale il viaggio in Abruzzo di Manganelli del 1987, interessante e prezioso il racconto che ce ne ha fatto Pino Coscetta, in una specie di staffetta emotiva ed amicale che ci coinvolge profondamente.

Patrizia Tocci 

venerdì 14 settembre 2012

Recensione: AZZURRI DI MARE E VELE ERRABONDE a cura di Lucio D'Arcangelo (Edizioni Solfanelli)


“Breve antologia della narrativa pescarese (1887-1987)” recita il sottotitolo di questo volume curato da Lucio D’Arcangelo. Le date di riferimento indicano il lasso di tempo che va dalla pubblicazione del romanzo storico La tentazione del Pescara di Conrad Ferdinand Meyer, uno dei grandi narratori in lingua tedesca dell’Ottocento [sul quale — ed è pura coincidenza — cfr. il saggio redatto da chi scrive, pubblicato su questo stesso numero di “Abruzzo Letterario”], alla raccolta di racconti Via del Procacciolo di Aldo Grossi.
 Un secolo di storia e di letteratura, durante il quale la città di Pescara si è evoluta da borgo di pescatori a moderna piccola metropoli — da “città western, nata su un tronco di ferrovia”, come la descrisse Guido Piovene negli anni Cinquanta, a “piccola Dallas”, come pure è stata definita da qualcuno.
Un secolo che ha visto ovviamente la presenza delle due grandi figure di riferimento della letteratura “pescarese”: D’Annunzio e Flaiano, anche se quest’ultimo — come ricorda D’Arcangelo nella Presentazione del volume — nelle sue opere parlò espressamente di Pescara solo in un caso: nell’annotazione “Traccia di autobiografia”, inclusa appunto in quest’antologia (forse dovrebbero ricordarsene coloro che in tutti questi anni hanno fondato un business culturale sulla presunta “pescaresità” del “povero Flaiano”, come spesso amano definirlo). Pescara è in realtà citata (ma solo citata) anche in un progetto incompiuto di Flaiano, un racconto sulla vita del “Messia d’Abruzzo” don Oreste De Amicis, ambientato nell’entroterra pescarese e teatino dell’Ottocento (ora incluso in Autobiografia del Blu di Prussia, Adelphi, Milano, 2003); semmai il ricordo della dimensione di vita provinciale emerge, nell’autore, nelle collaborazioni cinematografiche, a partire dalle sceneggiature per Fellini.
Di Gabriele D’Annunzio viene inclusa in questo libro “La Contessa d’Amalfi”, una delle Novelle della Pescara (pubblicate con questo titolo nel 1902, ma scritte nel ventennio precedente), dall’andamento “cinematografico ante-litteram”, come sottolinea giustamente D’Arcangelo: del resto D’Annunzio avrebbe nel 1913 collaborato alla realizzazione di uno dei capolavori della storia del cinema — Cabiria di Giovanni Pastrone —, ed è interessante che da un’altra delle Novelle della Pescara, “La morte del Duca d’Ofena” , pure sarebbe stato tratto un film nel 1916.
Un po’ a pendant del racconto dannunziano, segue “La ghirlanda” di Vincenzo Bucci (1903), una rarità pubblicata originalmente su “L’Illustrazione Abruzzese”, poi edita in volume nel 1920. Sono evidenti i legami con le Novelle dannunziane (anche proprio con “La Contessa d’Amalfi”, per certi aspetti), e il Bucci — di cui non si conoscono altri racconti — si presenta come uno tra i primi autori che avrebbero coniugato il nascente “dannunzianesimo” al retaggio un po’ kitsch del feuilleton che ebbe come elementi di spicco scrittori quali Carolina Invernizio (mi permetto anche di chiosare che il Bucci cade in uno svarione clamoroso attribuendo una famosa aria mozartiana de Le Nozze di Figaro al Don Giovanni, fraintendendone peraltro il significato: cfr. pp. 61 e 77).
Più interessante il recupero di un grazioso racconto di Luigi Antonelli, autore legato a Pescara anche se nativo di Castilenti: “La piccola sirena”, scritto con uno stile un po’ da “realismo magico” collegabile alle sue più famose opere teatrali. Bisogna dire che — per quanto schiacciato, in ambito “pescarese”, dalle figure di D’Annunzio e Flaiano — Antonelli è un autore che andrebbe sicuramente approfondito, ricordando anche che la sua commedia L’uomo che incontrò se stesso (1919) fu uno dei capolavori del cosiddetto “teatro grottesco” che nei primi decenni del Novecento tentò un rinnovamento della scena “borghese”, ormai dominata da un realismo un po’ stantio. Lo stesso Luigi Pirandello, nel 1934, avrebbe curato la regia di un’altra commedia di Antonelli: Il Maestro.

Sandro Naglia


Lucio D’Arcangelo (a cura)
AZZURRI DI MARE
E VELE ERRABONDE
Solfanelli, 2012
pp. 136 - Euro 12,00

martedì 4 settembre 2012

Presentazione della Rivista (Chieti, sabato 8 settembre, ore 18:00)

CHIETI MOSTRA LIBRI
II EDIZIONE
6-9 Settembre 2012
Chieti, Palazzo De’ Mayo in Corso Marrucino
ore 17.30 – 21.00

sabato 8 settembre ore 18.00

Presentazione della rivista

Abruzzo letterario

con Marco Tornar, Grazia Di Lisio e l'editore Marco Solfanelli

lunedì 3 settembre 2012

Recensione: IL RISVEGLIO DEL FUOCO di Chiara Cilli (Edizioni Tabula fati)

L'eterna lotta del bene contro il male (che alla fine irrimediabilmente soccombe) è stata ormai raccontata in ogni sua sfumatura, con ogni fantasiosa tecnica narrativa.
È, quindi, con particolare piacere che ci si lascia sorprendere dall'esordio letterario di una giovane scrittrice, Chiara Cilli, che con capacità e destrezza è riuscita a dar vita a un mondo, a una storia, affascinante e di piacevole impatto.
Con la semplicità di uno stile lineare e abilmente descrittivo, l'autrice riesce ad attrarre il lettore, in un crescendo di emozioni che non si attenuano con il trascorrere delle pagine.
Morwen, la protagonista, è la principessa degli inferi. Appare agli occhi del lettore in tutta la sua sfrontata irriverenza. È forte, è bella, è irresistibile. È affascinante!
Ma non è il fascino l’unica attrazione di Morwen. In essa il “male” (inteso come cattiveria fine a sé stessa) assume una dimensione sinora sconosciuta, quasi redimibile e contraddittoria. Ma non sono le contraddizioni quelle che affascinano di più?
Il male assoluto non può essere redento per definizione, ma su questo l’autrice non sembra avere le idee del tutto chiare. O forse è solo un ulteriore – il peggiore! – inganno, creato ad arte da una narratrice sapiente.
Ecco quindi che gli scenari cambiamo, diventano al tempo stesso più netti e più sfuocati. Nulla è come sembra e la fusione di forze opposte crea una tensione che diventa e resta palpabile sino all’ultima pagina.
La forza della Cilli sta nel discostarsi dal fantasy tradizionale. Non tanto (o non solo) per il diverso rapporto di forza tra bene e male (concetto che da solo meriterebbe notevoli approfondimenti), quanto per lo spazio che l’autrice dedica all’amore e alla storia tra i protagonisti. Ma ad affascinare (ancora questo verbo!) è l’intensità del fio narrante, il crescendo graduale che improvvisamente esplode in tutta la sua potenza. Una storia che appassiona per la sua freschezza, per il costrutto narrativo che la giovanissima autrice riesce a realizzare.
Il primo libro di una saga che terrà il lettore con il fiato sospeso, alla ricerca di una verità che è figlia del tempo.

Arturo Bernava


Chiara Cilli
IL RISVEGLIO DEL FUOCO
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-246-1]
Pagg. 272 - € 18,00

http//www.edizionitabulafati.it/ilrisvegliodelfuoco.htm

venerdì 17 agosto 2012

L’Arte come strumento di introspezione e di scoperta, dell’incerto che ci fa crescere

Il profondo lavoro di introspezione e l’affascinante apparizione dell’artista sconosciuto fino al momento dell’incontro generano il senso e la magia di un’autentica esperienza estetica. L’artista dalle illustri origini abruzzesi, riscopre la mutevole natura del suo mare (il mare Adriatico) da un punto di vista banale ma non scontato. Soffermarsi sul qui e ora significa aprirsi alla natura del proprio essere e del proprio stare per rivalutare finalmente il senso di appartenenza e prepararsi ad un nuovo viaggio. Guardare attentamente ciò che crediamo di conoscere, tutti i giorni alla stessa ora, ci offre l’opportunità di conoscere davvero ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi. Osservare il mare ci permette di guardare noi stessi grazie alla sua mutevolezza. Il suo fluire pacifico rivela la naturalità del continuo movimento che ci avvolge e ci guida …e quando inizio la mia opera di ricerca non so cosa scaturirà dentro di me tra qualche giorno o al 365° giorno. L’Ulisse Scatenato, istallazione di Antonio Lucifero (Roma 1968) presente al Mumi di Francavilla durante il 63° Premio Michetti ci offre uno spazio di riflessione utile al raccoglimento delle nostre energie da dispiegare in un nuovo viaggio. I confini dell’orizzonte sempre presente davanti all’obiettivo, davanti ai nostri occhi che iniziano a vedere ci rivelano l’immensità che ci appartiene e che ci riempie, l’infinità possibilità di trovare se stessi al di là di ciò che diamo per scontato. La ripetizione ci aiuta a comprendere e ci rende la libertà del nostro viaggio, che già compiamo e che non si interrompe.
Il progetto così vasto e metodico, la scelta di un soggetto primigenio e universale e infine, la realizzazione attraverso un materiale di immediata fruizione e l’eleganza della composizione rendono ad ogni spettatore la possibilità di regalarsi un momento di ponderata meditazione e il  respiro profondo dell’aria salmastra che ci riempie i polmoni. La pesantezza che blocca e accompagna chiunque accetti i propri limiti è la stessa che precede il momento della liberazione, del cambiamento, l’inizio di un nuovo viaggio.

Zaira Fusco

Recensione: LABIRINTO PRIMO di Davide Di Vitantonio

Libro interessante fin dall’indice, questo di Davide Di Vitantonio. I titoli delle poesie promettono una ricerca linguistica ed espressiva che incuriosisce e spinge immediatamente a una lettura attenta e partecipe. La promessa è mantenuta: le poesie offrono un panorama linguistico originale, ben lungi dall’essere semplice ricerca formale, fine a se stessa.

La prima poesia ha un incipit davvero brillante (una pagina lamenta il suo segno…), poi un po’ banalizzato da quel “bordo fallico” del verso 6, ma è solo un leggero difetto, ben presto la poesia si addentra in immagini che inducono alla riflessione, che a tratti sorprendono:


…sveglio di fuliggine

danzante alla collina, imparo ad osservare

i fiori della solitudine, coltivo il tributo

a largo di un’anfora di aceto.

(Sposa in inchiostro, alla carta)


Un tema classico, quello del ricordo, è subito dopo trattato in modo assai personale, come qualcosa da conquistare, più che come qualcosa da riguardare, su cui meditare:


Spogliati della grazia, ricopriti di vanagloria,

ma aspetta,

sono quasi arrivato,

sono quasi al limite del tuo ricordo

(Aspettami)


Tutto pare in vendita, lamenta più avanti il poeta (Bisogno), in un mondo che sembra privilegiare solo l’avere, nell’assenza più completa dell’essere. Una percezione distorta pare avvolgere il destinatario della poesia, sensazione favorita anche dall’uso dell’ipermetro


Hai tanti pensieri, hai ricordi, hai fame ma non gridi

ti tagli con un rasoio antico, il sangue

non lo vedi, ti manca la razione fetida

dell’addio, non vedi più di un ramo, secca passione,

l’albero è lontano, non vedi che un pinolo.


Il finale della poesia sorprende un poco, grazie anche alla dislocazione grafica, all’inizio di una pagina successiva, ma chiude con efficacia il cerchio aperto dai primi cinque versi:


Perdonate principessa,

quanto volete per una carezza?


A tratti, però, capita che le metafore appaiano un po’ forzate, risapute, che sembrino un gioco a incastro più che un fluire dell’ispirazione. La poesia appare allora “faticosa”, sostanzialmente non riuscita. È il caso, a nostro parere, di “Decidi serva, naviga regina”. Ma è solo un episodio, subito il lettore incontra la bellissima “Donna”, che avvince con la sua apparente semplicità.


Ancora, ecco Estate: un tema abusato trattato invece in modo originale, con immagini e metafore estremamente evocative. Una poesia davvero riuscita.


Si intuisce come questo giovane scrittore induca più alla scrittura di un saggio che a una semplice recensione. Non mi resta che invitare alla lettura di questo libro: vi si scopriranno momenti di alta poesia, che intenzionalmente ho voluto solo sfiorare in queste poche righe.


Giancarlo Giuliani



Davide Di Vitantonio

Labirinto primo

poesia

pagine 60, € 10,00

ISBN: 978-88-97364-42-9




mercoledì 15 agosto 2012

Recensione: PROFILI D'ALBERI di Marilena Ferrone

Chi sfoglia questo libro rimane immediatamente colpito da versi ed espressioni che denotano un approccio alla vita e alla poesia di natura non banale, ma profondamente sentito e rivissuto. L’autrice riesce infatti a cogliere il respiro dell'esistenza al di là di ogni facile soluzione, anche se, a volte, il volo della mente appare “eresia” e le parole sembrano solo “stratagemmi”, sì che il cuore ne resta stordito. Sempre però riemergono un forte senso dell’esistere e una vitalità senza compromessi.
L’autrice parla d'amore in modo linguisticamente non convenzionale, con metafore che a tratti sorprendono. Il lessico è personale, vigoroso, e le scelte sonore esprimono forza (si veda il prevalere delle "r" in Il dono, in particolare nel verso 9, "… e compromessi per dragare l'amore"). Ancora, il binomio lessico forte-amore è ancora più evidente in La gioia, con il susseguirsi dei verbi "disossare/ cotonare/ pedinare/ quietanziare/ codificare/ riesumare".
La poetessa non ci conduce però in una dimensione atemporale, anzi ricorrenti s’insinuano tra le pagine i temi del trascorrere del tempo, della memoria di un passato che sempre ritorna, che si fa presente e intride di sé il cammino verso il futuro:
... da scarniti cieli
ricucire a sorsi il desiderio
di misurare a passi l'avvenire ... (L'avvenire).

Tutto ciò, però, genera malinconia, non tristezza, oltre ad attimi d’intensa tenerezza (Dal bene all'infinito, dedicata al padre). Dolori e momenti di verità spingono a una profonda riflessione su se stessi, sempre rinnovando però il desiderio di vita e di amore. Ne è esempio, Vivere, che citiamo integralmente:

Lungamente ho aspettato
dove annuvola il crocicchio
e i crocus consumano primavere
Dove albeggiano le piccole mani
e le dolci parole
Dove di schianto piove
come un grido nell'aria
un tonfo sul cuore
Inutilmente
dove il mondo si dipana
e un daziere ingordo
assottiglia la luce

Proprio questo senso del tempo è creatore di poesia: “nel baccanale dell'eterno cielo / l'enigma del trascorrere è poesia". Va detto, comunque, che l’intima unità delle poesie che compongono la raccolta rende a nostro parere inutile la suddivisione in sezioni. Le poesie hanno la capacità di costruire un itinerario che non necessita, per un lettore attento, di indicazioni. Esse "parlerebbero" anche senza titoli. Si pensi all'incisività con cui la poetessa suggerisce l'incanto dello sguardo di una bambina:
Ero bambina
indeclinabile figlia della terra
un guizzo di luce
di sbieco alla montagna
sbracciata allo stupore (Infanzia)

Spesso, poi, la versificazione diviene ancora più fluida, leggera, i versi volano l'uno dietro l'altro, il linguaggio si fa lieve:
Abiterai
un profumo di ginestra
o un sogno
signora delle fate
Sarai il frammento
che rinfranca le ciglia
la breccia
che penetra i ricordi
Avrai il passo
angoloso di donna
che sfuma
la guazza sui fiori
e volerai
in mano
un sole impagliato
per incantarmi in poesia
la spuma del mare

Come s’intuisce facilmente anche dal titolo della raccolta, è la natura che aggiunge forza al cammino dell'esistenza. Ciò è vero in numerose poesie, ricchissime appunto di elementi naturali, mai però sovrapposti, ma sempre intimamente connessi alle emozioni dell’autrice. Si legga Profili d'alberi, con il suo finale molto espressivo, quasi una summa della visione del mondo dell'autrice:
Terra
che a sostenerla s'ama
che attende dai ricordi
la forza di esistere.

Un bel libro, non banale, anzi molto promettente. Attendiamo con fiducia l'autrice a nuove prove.

Giancarlo Giuliani


Marilena Ferrone
Profili d’alberi
REA edizioni, L’Aquila 2008
Euro 10,00

venerdì 10 agosto 2012

Recensione: COME UNA FALENA NELLE NOTTI D'ESTATE di Fiammetta Ferzi (Edizioni Il Ciliegio)

Fiammetta Ferzi ci offre un diario intimistico e appassionato, mediante il quale affacciarsi nel mondo complesso e affascinante dell’universo femminile.
Non un manifesto femminista o inutilmente rivendicativo di spazi e emozioni non concesse, quanto un viaggio sincero nelle aspettative, nelle delusioni, nelle gioie, e più in generale nella vita di una donna che ricerca la propria ragione di essere e la trova negli occhi smarriti di un bambino.
Viola, la protagonista del romanzo, è una donna come tante, dalla vita in apparenza serena. Nella sua esistenza, però c’è un vuoto profondo e sordo, che non intende ascoltare le scuse della ragione. È impossibile ascoltare la ragione, quando il cuore grida forte il proprio disagio!
E così Viola decide di partire, alla ricerca di un passato che dia significato al proprio presente e soprattutto sul quale fondare un futuro inizialmente incerto e fumoso.
Tornare sui luoghi della propria infanzia, significa per Viola comprendere le radici di un dolore mai del tutto accettato. E comincia quindi una sorta di percorso salvifico che deve affrontare la propria profondità nel dolore viscerale del mondo, degli “altri”: del “fallito” Marcello, della insoddisfatta Matilde, sino agli occhi di un bambino sconosciuto. E poi della
Lei per eccellenza, della madre di Viola che involontariamente rivela alla figlia un trascorso di scelte difficili, mascherate con il velo dell’apparente leggerezza.
Non è un percorso semplice quello che porta il proprio dolore a confrontarsi con quello degli altri. Anzi, è spesso un procedimento rischioso, dal quale potrebbe essere possibile non riemergere e che comunque dal quale non si può (e non si deve!) uscire con le stesse paure dell’inizio.
Fiammetta Ferzi si dimostra, al suo esordio letterario, come una scrittrice capace di suscitare emozioni, forse perché il suo è un narrare che nasce delle emozioni. Non si nasconde dietro le convenzioni che spesso ingannano gli autori meno esperti, e affronta – onesta, ma determinata – il difficile compito di raccontare un mondo complesso come quello dell’animo femminile.
Ripercorrere la vita di una donna, per una donna che si rivolge principalmente a un pubblico femminile, può far incorrere nel facile – ma quanto mai ingannevole – abbaglio che tende a escludere il mondo maschile da certe dinamiche che portano all’acquisizione di una consapevolezza nuova. Invece “Come una falena nelle notti d’estate” è un libro che si rivolge anche e soprattutto a lettori che hanno voglia di comprendere – almeno in parte - la complessità dell’animo femminile, per carpirne i sogni e trasformarli in desideri esauditi.
Procedimento quanto mai complesso, ma alla portata di anime sensibili, che prescindono dal genere di appartenenza, per trasformarsi in recettori di emozioni, che tendono alla felicità ricercando la propria viscerale ragione di vita.

Arturo Bernava


Fiammetta Ferzi
COME UNA FALENA NELLE NOTTI D'ESTATE
Il Ciliegio, 2012
Pagg. 244 -
Euro 16,00



lunedì 6 agosto 2012

Sandro Naglia: LA PARTICELLA DI ...

La conferma dell’esistenza del Bosone di Higgs (o, per essere più scientificamente esatti: l’osservazione di una particella con caratteristiche compatibili con il B. di H.), annunciata ufficialmente dal CERN di Ginevra il 4 luglio scorso, ha giustamente monopolizzato le prime pagine dei giornali, seppure per brevissimo tempo. Devo dire che fa piacere vedere una straordinaria e capitale scoperta scientifica sostituire una volta tanto le povere beghe politiche strapaesane nell’attenzione imposta dai mezzi d’informazione al pubblico (anche se sospetto che i giornalisti abbiano colto al volo soprattutto il lato “folkloristico” della notizia, incluso lo scienziato in lacrime ecc.).
Io non sono affatto un addetto ai lavori, ma detto in soldoni l’importanza della conferma dell’esistenza di questa particella — che era stata ipotizzata fin dal 1964 — è legata al suo ruolo di “aggregatore” della materia. Nella teoria del Big Bang c’era ancora “l’anello mancante” che portasse dal manifestarsi dello spazio-tempo dopo l’esplosione originaria al primo istaurarsi della materia: il Bosone di Higgs sarebbe proprio la particella che, conferendo la massa alle particelle, darebbe di conseguenza origine alla forza di gravità, creando le premesse per l’aggregazione della materia. Di qui il soprannome di “Particella di Dio”.
Premetto a quanto segue: io personalmente, seguendo una tradizione filosofica che risale ai Veda e passa per Parmenide, credo in un Universo eterno, increato, immortale e onnicomprensivo, dove quindi non “c’è bisogno” della figura di un Dio creatore, e d’altro canto il Big Bang — che sarebbe la matrice della nostra stessa possibilità di concepirlo, l’Universo — si sarebbe manifestato in ogni caso all’interno di un “qualcosa” preesistente (dal Nulla non può originarsi nulla).
Quello che forse non tutti sanno è che il soprannome “Particella di Dio” dato al Bosone di Higgs deriva dal titolo di un libro di fisica divulgativo: The God Particle: If the universe is the answer, what is the question?, pubblicato nel 1993 dallo scienziato Leon Lederman (la traduzione italiana è stata pubblicata da Mondadori nel 1996). Questi però aveva originalmente soprannominato il B. di H. “Goddamn particle”, che in italiano si dovrebbe rendere con un’espressione a metà tra “particella maledetta” e (perdonatemi) “particella del c...”, a causa della sua inafferrabilità e resistenza all’identificazione da parte dei fisici. L’editore del saggio censurò l’espressione, e la abbreviò in “God particle”, data anche la valenza metaforica che poteva derivare da tale soprannome (che poi bisognerebbe tradurre correttamente “Particella-Dio” e non “di Dio”).
Higgs ha sempre rifiutato questa definizione, perché — da ateo — la trovava offensiva nei confronti dei credenti, dato che oltretutto l’esistenza di questa particella avrebbe potuto finire di smantellare — almeno da un punto di vista “razionale” — molti pilastri su cui si basano diverse religioni riguardo all’idea di una Creazione.
E che non si dica che gli atei sono sempre degli oltranzisti...



REPLICHE


Marco Tornar: Che la particella sia di per sé nozione atea non mi pare una novità — la novità semmai è la Particola — un c... non ci vuole a sistemare l’universo SENZA il Corpo Purissimo di Nostro Signore Gesù Cristo — il problema è il contrario —


Giancarlo Giuliani: Non vi è contraddizione tra scienza e “Dio”, a meno che non si consideri un Dio con “caratteri personali”, cosa che solo la nostra suprema presunzione di uomini poteva produrre. Credo in un universo come corpo unico, e me ne sento cellula, ma il passaggio a indicare un Dio-persona come autore dello stesso non ha alcuna giustificazione filosofica, è un atto del cuore, della speranza, o, se volete, della paura. La scienza non c’entra. Abbiamo fatto un passo avanti nella conoscenza. Questo è tutto.


Marco Tornar: La conoscenza è tracotanza — c’era scritto pure a Delfi — Ma per essere attuali “Tutto questo ritornare dimostra solo quel che dico io, che non esiste progresso — e si gira in un cerchio” (Lacan).


Arturo Bernava: Quando una particella mi invaderà il cervello, il cuore e l’anima (ovunque essa sia, quella cosa nera e putrida!) allora la chiamerò particella di Dio. / Quando una particella la chiamerò e sentirò una pressione sul capo e la certezza che non sono solo, allora la chiamerò particella di Dio. / Quando una particella mi darà una speranza, quando tutto intorno a me sembra averla persa, allora la chiamerò particella di Dio.
Sono molto soddisfatto che la ricerca scientifica si evolva e dia risposte sino ad ora soltanto ipotizzate. Ma ritengo profondamente ingiusto nominare il nome di Dio invano, soltanto per questioni di “marketing”. Come dice Sandro Naglia nel suo articolo, la traduzione letterale non è “particella di Dio” e allora perché chiamarLo in ballo senza motivo? Forse per avere più risalto sui giornali di tutto il mondo? Non voglio sminuire la portata della scoperta (che lo ripeto - sebbene io sia un profano della materia - mi rende in qualche modo orgoglioso), ma sono convinto che se l’avessero chiamata “particella del cavolo” non avrebbe avuto tutta questa risonanza.
Ecco... partire da una “scorrettezza” lessicale, in nome di una maggiore risonanza mediatica, probabilmente nulla toglie al valore della scoperta, ma dal mio punto di vista ne opacizza l’importanza. Un po’ come sei io scrivessi un libro e invece di firmalo Arturo Bernava lo firmassi Gesù Cristo, perché non sono molto convinto del contenuto del libro e allora punto tutto sul nome in copertina.
Lo ammetto: ho estremizzato un po’ il concetto (giusto un po’), però pure loro...


Marco Tabellione: La scienza non potrà mai avere l’ultima parola, per quanti sforzi faccia, per quanti passi evolutivi compia (sempre che si possano continuare a chiamare evoluzione certe aberrazioni dell’espansione tecnologica), rimarrà sempre un passo in più che essa non sarà in grado di colmare. E’ come per i numeri, sono infiniti perché ne puoi sempre aggiungere uno. Purtroppo, o meno male a seconda dei punti di vista, si potrà sempre aggiungere Dio alla fine dell’ultima scoperta. Chi l’ha fatta questa particella di Dio? Dio? E chi è Dio? Dov’è? Questo la scienza non potrà mai dirlo, e forse neanche vuole. Ciò significa che la religione avrà sempre il suo spazio, sempre la sua importanza. Senza tenere conto del fatto che la religione può toccare dimensioni spirituali che la scienza ignora e vuole ignorare. Certo, non è solo alla religione che dobbiamo attribuire il compito di indagare la dimensione spirituale, ma è indubbio, per quanto mi riguarda, che al di là di quella particella, al di là dell’ultimo numero, si apre lo spazio spirituale e misterioso, e lì non è la ragione che domina. Il resto sono solo beghe su nomi.

domenica 29 luglio 2012

Recensione: LEGGENDE DEL LAGO DI SCANNO di Italia Gualtieri e Diana Cianchetta

Questo libro ha il sapore dei racconti accanto al fuoco, in montagna, oppure presso il focolare nelle sere d’inverno. Ricostruisce la trama di antiche storie, donandoci il fascino della fiaba, della leggenda che si mescola alla storia, che costruisce il tessuto connettivo di una comunità. Su tutto c’è il lago, da sempre scenario privilegiato di storie e avventure.
Ecco allora svelarsi ai nostri occhi la terribile maga Angiolina, la cui storia è narrata con la fiabesca fluidità che riesce a ottundere anche l’impatto di sanguinose scene di battaglia, come il fallito assalto al castello. Ancora oggi, dice la leggenda, intorno al lago possono trovarsi delle pietre, residuo di quell’immane battaglia. Non manca poi, tipico anch’esso delle fiabe, il contrasto tra bene e male, con un momento in cui il nobile atteggiamento di una principessa rapita induce nella maga un insolito sentimento, che tanto assomiglia all’amore.
Vera metafora dell’esistenza è il racconto del venditore sconosciuto e del suo lungo e tormentato viaggio, fino a trovare salvezza grazie a un miracolo della Madonna del Lago e poi a terminare la sua vita proprio a Scanno. La storia è all’origine del culto particolare tributato alla statuina della Madonna e della suggestione per la quale il lago avrebbe la forma di un cuore.
Amore e morte si mescolano, come nella contesa tra la maga Angiolina e Pietro Baialardo, oppure nella cruenta leggenda dell’origine del lago, al tempo della grande battaglia contro le truppe dell’imperatore Augusto. Con tenerezza si legge la storia dell’amore della leggiadra Donna Giovannella per il nobile Cantelmo, che lascerà la sua vita in Terrasanta. Un amore che dura oltre la morte, con la leggenda della fanciulla che attende sempre l’impossibile ritorno dell’amato, prigioniera in un’oscura grotta sotto la sorveglianza di un terribile drago.
Sempre, però, è presente il tema del “sacro”, già evidente nella redenzione di Pietro baialardo, ma ancora di più nella storia del pastore, due volte testimone dell’apparizione di un raggio luminosissimo, indizio della presenza divina. L’evento è all’origine dell’usanza degli abitanti di Scanno di trasportare la Madonnina in paese quando vi sono eventi che turbano particolarmente la comunità. Un libro da leggere.


Giancarlo Giuliani


Italia Gualtieri e Diana Cianchetta
Leggende del lago di Scanno
NaTourArte, 2007

lunedì 23 luglio 2012

Fotografie (ricordo di Umberto Timmonieri) di Arturo Bernava


Il tempo è fatto di fotografie. 
Le rivedo in ordine, alcune in bianco e nero, altre a colori, a scandire i ritmi della conoscenza, dell’amicizia.
Come nasce una storia, Umberto? Quali strani e arcani meccanismi si innescano nella mente dell’autore, per trasformare la nebulosa alea di un pensiero in uno scritto da consegnare agli affamati lettori?
Tante sono ancora le domande che vorrei farti, a tante altre vorrei rispondere. Ma tu non ci sei, sei andato avanti, e io cerco di fermarti in una fotografia, per tradire la tua assenza, per annullare il mio silenzio. Ecco sì, in silenzio perché sono inutili le parole dell’assenza.
La scruto la prima fotografia, il primo frammento del ricordo di quel minuscolo studio televisivo. L’hai descritto bene, mirabilmente, il tuo mondo, quello dal quale fuggire soltanto per ascoltare il cinguettio degli uccelli. In “Basta contare” — il racconto che chiude il tuo libro — lo hai colorato con quella sapienza che solo un comunicatore esperto poteva disegnare, la stessa sapienza dei semplici.
Ed eccola finalmente la prima fotografia: tu seduto sul tuo sgabello, a contare i passi della tua mente che cerca frettolosamente il difficile cognome dell’autore di turno. Eccola nell’eloquio colorato della tua semplicità, caratteristica importante e niente affatto scontata.
Ma non solo libri nella tua carriera. Attualità, giornalismo, l’innata capacità di tratteggiare un mondo che si vede anche solo con gli occhi dell’anima. E quindi quel “TG insieme” da cui, forse, hai tratto il tuo primo racconto, quella “Porta dei sogni” che ha rappresentato però l’incubo di un mondo che sta andando troppo veloce.
Un mondo che volevi fermare, per scendere nella tua fotografia. È bello a volte fermarsi. Essere riconosciuto non perché mettevi gli occhi sulla mia faccia, ma perché qualcuno — la dolce Alba Chiara — portava i tuoi occhi con sé e ti lasciava i suoi, come segno di un’intima appartenenza.
Come nasce una storia Umberto?
Come si riconosce “La forza del destino”? Come si fa a comprendere se siamo lupi o iene, o — ancora peggio — uomini con l’iniziale minuscola?
Tu lo sai, noi no. Perché forse siamo noi ad esser fermi in una fotografia.
E ti rivedo in un’altra immagine, mite nei modi e nei termini, estremamente elegante mentre cadenzi il tuo eloquio rotondo. Ti rivedo sorridente e gentile, pronto allo scherzo e soprattutto all’ironia. Ti ho scoperto saldo e rigoroso nei principi, fedele alla strada intrapresa, coraggioso nell’affrontare le mille difficoltà del vivere quotidiano.
Ora nella fotografia che ci ferma io potrei salutarti e lasciarti andare. Però non ho ancora capito: come nasce una storia, Umberto?
E leggo ancora una volta il tuo terzo racconto, quello che dà il titolo all’intero libro. “È così che nasce una storia”. Lo conosco bene, ho firmato la presentazione, ho curato l’editing, eppure rileggerlo mi dona sempre un’emozione diversa.
E nella consolazione della lettura all’improvviso comprendo: la storia nasce dalla forza delle scelte, dalla capacità di plasmare la nostra esistenza. “Quisque faber fortunae suae”. Oh sì, tu sì che sei stato artefice del tuo destino. L’hai plasmato e piegato con la forza della determinazione, l’hai vinto quando questi credeva di averti sconfitto. E rileggere la tua storia mi dona un’inspiegabile serenità, ma anche una voglia irrefrenabile di discorrere ancora con te, di confrontarmi con la tua arguzia e di giocare con la tua ironia.
Ti penso e il pensiero dà forma a una fotografia, forse l’ultima. Ti vengo incontro, perché posso ancora vederti e leggerti e commentare il senso della tua immortalità, il tuo libro. Quello stesso che tieni in mano, che afferri quasi con pudore, con imbarazzo.
L’espressione persa, l’immancabile ironico sorriso sul volto e la consapevolezza che non si diventa immortali solo per aver scritto un libro, ma perché si è entrati nel cuore delle persone.
Mi fermo e ti guardo sorridere. Penso che sono stato fortunato a conoscerti, onorato di aver potuto lavorare con te.
E stavolta sorrido anch’io, perché nella sera che oscura le fotografie, posso ancora ringraziarti

Arturo Bernava

domenica 22 luglio 2012

Recensione: I PENSIERI DEGLI ANGELI di Giovanna Mancini

Rudolf Steiner disse che se il Mistero del Golgota fosse comprensibile con la ragione umana non ci sarebbe stato bisogno che il Mistero del Golgota avvenisse, sarebbe stato perfettamente inutile. Dunque altrettanto opportuno estendere il concetto ad altri ambiti spirituali. Confessiamo un nostro iniziale pregiudizio poi subito sfumato verso I pensieri degli Angeli di Giovanna Mancini, nonostante la bella veste editoriale. 
Per quanto riguarda la letteratura sugli uccelli di Dio davvero arduo fare a meno dello pseudo Dionigi Areopagita e di Dante – ossia dalla complessa rappresentazione di intelligenze celesti per esempio dal movimento ultrarapido nel Primo Mobile (i serafini) o  dalla forma di ruote intersecantisi due cerchi gerarchici dopo (i troni).
Ma anche questo un trabocchetto della ragione, perché l'inusuale sensazione di piena serenità interiore che infonde la lettura del libro della Mancini – già dopo le prime pagine – non è certo rinviabile alla categoria dei libri commerciali e New Age  involgarenti ancora l'argomento.
Riguardo all'“uso del libro” l'autrice stessa scrive che “aiuta a vivere il momento del qui e ora” e avverte addirittura che ogni corsivo tipografico corrisponde a un “punto di luce, uno dei possibili sguardi nell'infinito”. Senz'altro credibile – ed è illuminante questa riflessione sulle potenzialità del carattere della lettera scritta – tanto più in testi mossi da grazia e da un'ingenuità da intendersi nel senso più nobile del termine.
Può la ragione umana tentare di figurarsi entità spirituali irradianti una tenerezza forse più forte di quella che sulla terra sprigionano i cuccioli? Certamente no. Perciò questo libro di piacevolissima e semplice lettura, oltre alla bontà che lo pervade, alla cura offrente a chi soffre, si eleva come potente sfida.
Nella seconda parte si associa a ogni angelo un colore, arrivando alla classificazione di ben ventuno specie spirituali – ovviamente del tutto estranea a qualsiasi canonica speculazione teologica. E tuttavia ci crediamo.
La purezza di scrittura degli angelici messaggi della Mancini è tale da provocare al lettore un potente richiamo superiore – incondizionato, libero da critiche riserve e censure – a cui è giusto abbandonarsi. Le diecimila copie vendute le meritano tutte questi Pensieri. In tempi tanto ilici ciò non può non apparire come provvidenziale meraviglioso tassello da aggiungere sul sentiero dell'umano progresso spirituale.

Marco Tornar


Giovanna Mancini
I PENSIERI DEGLI ANGELI 
il Ciliegio edizioni
Lurago D'Erba 2010
p. 253 euro 15,92

http://www.edizioniilciliegio.com/libri-giovanna-mancini-i-pensieri-degli-angeli-9659.html



giovedì 12 luglio 2012

EDITORIA: ABRUZZO LETTERARIO, L'ALTA CULTURA COMPRENSIBILE (di Erminio Cavalli)

Sta per uscire il secondo numero di Abruzzo Letterario, “una rivista di arte, folklore e musica”. Così recita il suo sottotitolo: ma c’è dell’altro. Tant’altro ancora.

Stiamo parlando di un progetto editoriale davvero ricco e interessante, rivolto soprattutto a chi ama leggere, ma anche a chi ha passione per la scrittura. E magari non trova ancora l’occasione, il “coraggio” di proporsi.

La rivista è pubblicata da Tabula Fati, grazie ad un’idea del suo direttore Marco Solfanelli, da pochi giorni nuovo Presidente dell'Associazione Editori Abruzzesi.

AbruzzoWeb ne ha parlato con lui.

Come nasce l’idea di Abruzzo Letterario?

Da una delusione. Dalla scoperta che una recente iniziativa editoriale settimanale si limitava a riservare uno spazio davvero irrisorio alle pubblicazioni letterarie di carattere regionale. Ritenevo fosse giusto e interessante pubblicare una rivista che si dedicasse prevalentemente a una produzione letteraria abruzzese e a una valorizzazione culturale del nostro patrimonio di uomini e di idee.

La sua rivista si rivolge a un pubblico specifico?

Abruzzo Letterario non è una rivista elitaria. Tutt’altro. L’intento è quello di rivolgersi a chiunque. Per questo abbiamo scelto di dare molta importanza alla semplicità di lettura, anche per favorire e stimolare l’approccio verso questo tipo di realtà. I nostri articoli ideali sono infatti quelli intelligenti ma che possano al contempo risultare fruibili da chiunque.
Una lettura alta ma comprensibile.

A guardare la copertina e il volto di Flaiano balza agli occhi un certo gusto retrò. Una scelta voluta?

Sì, decisamente. Mi sono ispirato al Conciliatore, una rivista a me cara. Sull’illustrazione della copertina verrà pubblicato ogni volta un autore diverso, insieme alla sua città di riferimento. Stavolta volevo che fosse Ennio Flaiano il simbolo della nostra identità.

La veste grafica potrebbe trarre in inganno. Si tratta in realtà di una rivista che sorride al passato, ma per guardare al futuro. Mi sembra molto underground. Non è così?

Penso di sì. Tanto per capirci, ho voluto fortemente che non ci fosse nessuna pubblicità per Abruzzo Letterario. Il mio più grande desiderio è che questa iniziativa possa crescere nell’ombra, diffondersi quasi come un fiume carsico. In questo senso possiamo definirla underground. Deve avere una certo sapore misterioso, deve lasciarsi scovare.

Tra Abruzzo Letterario e altre riviste più o meno diffuse nel nostro contesto esiste una sostanziale differenza?

Non credo. Esistono molte realtà interessanti nella nostra regione, ma non riescono ad avere una voce. La mia rivista non vuole essere diversa da queste, né ha l’ambizione di essere migliore. Semplicemente, è una voce in più, che spero possa avere il suo successo.

Chi scrive per la sua rivista?

Sono per il momento amici, appassionati di letteratura, di certo tutti rigorosamente al di fuori degli establishment culturali. Lo scopo è anche quello di recuperare vecchi scrittori ormai scomparsi e affiancarli ad autori moderni. Nostro fiore all’occhiello è il giornalista Giacomo D’Angelo, un professionista di grande esperienza. Nella mia rivista lui ha il compito di uscire dal politicamente corretto. Grazie al suo prezioso contributo, vogliamo dare risalto ad una voce decisamente controcorrente.

Abruzzo Letterario contiene saggi storici, poesie, racconti, ma anche illustrazioni, testi visivi. Di tutto di più. Ma c’è una sezione che le sta particolarmente a cuore?

La rubrica sulle recensioni librarie perché ci sono tantissimi autori abruzzesi che meritano di essere scoperti. Questa rivista è dedicata a loro, anche a chi non trova particolari motivazioni a scrivere, a farsi conoscere. Dobbiamo tutti avere coraggio ed entusiasmo. E fidarci delle nostre potenzialità. Anche se purtroppo qualcuno sembra ignorarci.

A chi si riferisce in particolare?

A nessuno in particolare. Mi riferisco a tutto il contesto editoriale della nostra regione, che tende a penalizzare gli autori abruzzesi a vantaggio di altri. Non ne capisco sinceramente i motivi. Tanto per fare un esempio: da parte degli organizzatori di eventi culturali esiste oggi una sottostima di autori locali. Sono molti gli scrittori italiani che vengono invitati a eventi, conferenze, ma non sono mai abruzzesi. I nostri vengono messi da parte o relegati in qualche modesta recensione di giornale.

Questo atteggiamento grida vendetta. L’Abruzzo viene visitato da molti per la sua bellezza paesaggistica, per la qualità della sua cucina, del suo olio, del suo vino, ma nessuno che mostri la volontà di proporre la nostra cultura. Questa rivista nasce per dare spazio a tutte quelle voci che non possono restare emarginate. Mi auguro che avranno con Abruzzo letterario un’occasione in più per provare ad esprimersi.


http://www.abruzzoweb.it/contenuti/editoria-abruzzo-letterario-lalta-cultura-comprensibile/484116-1/


sabato 30 giugno 2012

ABRUZZO letterario n. 2 (aprile-giugno 2012)



Sommario del n. 2

LA MAIELLA E IL MITO, racconto di Donatello D'Orazio

LETTURA E ANALISI DELLA MUSICALITÀ in “La pioggia nel pineto”di Gabriele D'Annunzio, di Marco Tabellione

IL TEATRO DELLE MARIONETTE DI BORGOMARINO DI PESCARA, di Vito Giovannelli

Intervista a: GIOVANNI D’ALESSANDRO, a cura di Arturo Bernava

SULLA MADONINA DI FRANCESCA ALEXANDER, di Marco Tornar

POESIE di Chiara Coppa Zuccari, Anna Maria Giancarli, Daniela Quieti, Francesco Marroni, Gulnara Sharafutdinova, Marco Tabellione e Marco Pavoni

UN ANNO DI AMICIZIA, di Alfonso Viola

ALLITTERAZIONI, racconto di Sandro Naglia

IO SONO IL FIUME, racconto di Patrizia Tocci

IL LIBRO, racconto di Giancarlo Giuliani

GLI SCRUPOLI EDITORIALI DI DON RAFFAELE, di Giacomo D’Angelo

L'ABBAZIA DI SAN PANCRAZIO, di Nicoletta Travaglini

Recensioni: V. Moretti, LUOGHI; D. Quieti, L’ULTIMA FUGA; S. Ciocca, STORIE DI LETTERE; C. Mosca, E DONNE INFREDDOLITE NEGLI SCIALLI; J. de La Fontaine - E. De Marchi, TROIS FABLES; Dante Alighieri - G. Gordon Byron, FRANCESCA DA RIMINI; E. Aurelio, OCCHI DI RAGAZZO



Arti grafiche: MIRKO SANTANGELO

Arte della fotografia: PIERO BOSCO


Illustrazione dei racconti di Pellegrino Capobianco
Copertine di Vito Giovannelli

lunedì 25 giugno 2012

LABIRINTO PRIMO di Davide Di Vitantonio arriva in libreria



“Labirinto primo”. Il titolo rimanda al mitico labirinto di Cnosso, dove Dedalo rinchiuse il mostruoso Minotauro prima di restarne prigioniero a sua volta, e di fuggire verso il sole su ali di cera. Ciò che viene qui imprigionato, sono le urla e i terrori più intimi e inconfessabili. La paura, la pietà e la vergogna eruttano violentemente le proprie ragioni attraverso queste pagine, intervallate a sprazzi da liriche di nostalgica malinconia e rabbiosa solitudine. I mesi roventi, le passioni feroci e una tristezza lucida e infinita hanno trovato la propria voce in un intrico di oscure gallerie e precipizi, disegnati sul piatto dolceamaro dell’erotismo e dell’incubo.

Laureato in Psicologia e studente di Filosofia, Davide Di Vitantonio è nato nel 1987 a Teramo, dove vive. Segnalato nel concorso internazionale di poesia “diVerso inVerso” 2011, è alla sua prima pubblicazione con Nulla die. Al momento ha in preparazione due romanzi e una nuova raccolta poetica.


Davide Di Vitantonio
Labirinto primo
poesia
pagine 60, € 10,00
ISBN: 978-88-97364-42-9

http://nulladie.wordpress.com/2012/06/10/labirinto-primo-di-davide-di-vitantonio-arriva-in-libreria/



mercoledì 30 maggio 2012

Recensione: E DONNE INFREDDOLITE NEGLI SCIALLI di Cristina Mosca


Davvero felice l’impostazione grafica. Ho visto il libro su uno scaffale e sono stato subito incuriosito dal titolo e dall’efficacia dell’immagine di copertina. Ma è solo l’inizio: il libro di Cristina Mosca è coinvolgente, lo stile è asciutto, il linguaggio fluido, molto corretto, elegante anche quando si lascia andare a qualche localismo. I primi due capitoli, con leggerezza, delineano la condizione di Sara, la protagonista: una ragazza in attesa della vita, con ritrosie e aperture tipiche di chi è ancora alla ricerca di se stessa. La notizia improvvisa della morte di due amiche segna il punto di non ritorno: il  lettore si fa più attento, legge con maggiore velocità, sente che il processo di formazione non può che svolgersi ora, pagina dopo pagina.
Ed ecco Sara al suo primo servizio, con la goffaggine, l’ansia di chi inizia un percorso non conosciuto, ma anche la determinazione di chi sa di voler emergere, avverte che c’è un’occasione da cogliere. E poi c’è Lorenzo, l’operatore, il ragazzo per il quale Sara avverte strani turbamenti. I due hanno caratteri apparentemente non conciliabili, Lorenzo ha nella testa e forse nel cuore Emilia, Sara oscilla tra l’incertezza della principiante e la forte volontà di una donna decisa a emergere.
Non è opportuno raccontare la trama, certo, ma vorrei segnalare la forza e l’incisività del capitolo ottavo e del capitolo decimo, con i ritratti psicologici di Mara e di Matteo. Attraverso il rapporto con i luoghi e le cose il personaggio si svela al lettore nei suoi moti più intimi. Folgorante, poi, il finale del capitolo decimo: “Quanto è facile morire?”.
Il tutto con la colonna sonora di canzoni e gruppi musicali che evocano tempi, luoghi e  atmosfere. Spesso, poi, si avverte il respiro della poesia, come ad esempio nella prima parte del capitolo diciotto, in cui sembra di scorgere l’incanto di un meraviglioso incontro tra la montagna, il fiume e il mare. C’è poi un’altra sorpresa: se si leggono di seguito i capitoli dispari, fino al diciannovesimo, si scopre quasi un libro nel libro. Ma questa è un’altra storia e va lasciata alla curiosità del lettore.


Giancarlo Giuliani



Cristina Mosca
E donne infreddolite negli scialli
Schena Editore, Brindisi 2007
Pagg. 144 - Euro 12,00


sabato 26 maggio 2012

Recensioni a 2 edizioni di IkonaLiber


Jean de La Fontaine / Emilio De Marchi
TROIS FABLES
IkonaLíber, Francavilla al Mare-Roma, 2012

Dante Alighieri / George Gordon Byron
FRANCESCA DA RIMINI
IkonaLíber, Francavilla al Mare-Roma, 2012


   A proposito di bibliofilia: la casa editrice IkonaLíber — nata quest’anno in concomitanza col venticinquennale d’attività dello Studio Grafico Ikona con sedi a Francavilla al Mare e Roma — dopo aver inaugurato le sue pubblicazioni con due collane di libri elettronici (“Le forme del linguaggio” e “Movimenti del suono”), propone ora una terza collana molto particolare.
   Quasi a totale contrasto con la produzione di e-books, si tratta qui di piccole plaquettes in pochi esemplari numerati, realizzate artigianalmente su carta pregiata e ulteriormente impreziosite, oltre che dalla grafica elegantissima, da fotografie originali anch’esse in tiratura limitata. Peculiarità dei testi: l’essere traduzioni “d’autore” di classici di diverse epoche (donde il nome della collana: “Janus”).
   I primi due lavori editi in questa collana sono Trois fables di Jean de La Fontaine tradotte da Emilio De Marchi, e Francesca da Rimini, traduzione di George Gordon Byron dell’episodio del V Canto dell’Inferno dantesco. Entrambe le plaquettes sono in 35 esemplari con una foto originale di Fabrizio M. Rossi.
   La traduzione del frammento dantesco, realizzata da Byron nel 1820, è probabilmente una delle traduzioni poetiche più vicine alla perfezione della storia della Letteratura, e non solo dal punto di vista tecnico. In terza rima come nell’originale, i versi tradotti praticamente in maniera letterale, e tuttavia con un ritmo poetico (byroniano) che si sovrappone seppure in maniera molto discreta a quello dantesco: potrebbe essere studiata come un manuale della traduzione, considerando oltretutto la profonda diversità fonica e grammaticale dell’inglese e dell’italiano.
   La traduzione di tre favole di La Fontaine fatta da Emilio De Marchi (l’autore di Demetrio Pianelli) percorre invece una strada opposta e complementare a quella di Byron: per essere in grado di giocare con coerenza il gioco dell’autore, il traduttore “tradisce” a volte la lettera del testo, a favore di un equivalente linguistico e poetico che salvaguardi il senso profondo dell’originale (straordinaria, in particolare, la resa de L’uomo e la sua immagine).
   Nel panorama dell’editoria italiana, il riferimento d’obbligo per questa collana di IkonaLíber è sicuramente Pulcinoelefante, la casa editrice di Alberto Casiraghi che pubblica una plaquette quasi ogni giorno, ancora con la stampa a caratteri mobili. Pochissimi esemplari peraltro fuori commercio: un mito per i bibliofili. Auguriamo a IkonaLíber la stessa fortuna per un’iniziativa che afferma in maniera sublime la fede nella qualità e nel valore insostituibile della carta stampata, in un’epoca che sembra tendere invece a volerla svilire a tutti i costi.

Sandro Naglia

mercoledì 16 maggio 2012

Recensione: GIUSEPPE CAPOGRASSI di Vincenzo Lattanzi (Edizioni Solfanelli)

Trovo molto bello il libro di Vincenzo Lattanzi. L’incipit è assai felice, dà il tono che sarà proprio di tutta l’opera, elimina subito nel lettore il senso di “freddezza” che si ha di solito all’approccio con una biografia. Lattanzi scrive con amore, si sente in ogni parola, eppure non abdica all’obiettività, offre un ricco e convincente apparato di note, prezioso per chi voglia conoscere meglio Capograssi, uomo di grande talento, troppo spesso non adeguatamente considerato (Lattanzi sottolinea con amarezza la sottovalutazione operata da Garin , pur indicandone correttamente le probabili ragioni).
Lo stile dello scrittore è brillante, ricco senza essere stucchevole, denso di impliciti richiami a una profonda cultura personale, pieno di sensibilità e rispetto, sia per il lettore, sia per le persone di cui parla. Con pochi e incisivi tratti delinea lo sfondo storico-sociale di ognuno dei momenti topici della vita di Capograssi, sottolineando come già da giovane il filosofo (ci si perdoni questo termine limitante, forse, ma che ci pare essere la vera sostanza dell’attività di Capograssi. Mai le sue posizioni hanno il peso dell’assertività, c’è sempre un tentativo di risalire alle cause, di prevedere gli effetti, di sentirsi parte di un tutto) mostrasse tutto il suo potenziale talento, nutrito di cultura umanistica, affezionato a quel Vico che sarà sempre il suo riferimento primario, attentissimo, però, alla realtà, all’applicazione pratica, alla vita di tutti i giorni. Mai così felicemente s’incontrarono letteratura, filosofia e diritto! Partito da uno storicismo di matrice crociana, mostra subito la sua originalità quando si distacca da D’Annunzio, mantenendo saldo il suo tendere al bene comune, caratteristica che lo accompagnerà per tutta la vita.

Allo stesso modo, nella tesi di laurea, rifiuta la tendenza “metafisica” ancora evidente in Orlando e sente in modo evidente la necessità di salvaguardare l’esperienza comune, la civiltà giuridica, il bene dell’individuo. Per tutta la vita continuerà a perseguire questo ideale che nulla ha di astratto, ma si nutre dell’esperienza, in una parola della vita, pur mantenendo saldi i principi del rispetto delle istituzioni, della tendenza all’ordinato e corretto vivere civile. Molto interessanti sono anche le pagine dedicate all’analisi delle motivazioni che spinsero Capograssi a giurare fedeltà al regime fascista. Lattanzi ci restituisce l’uomo, con i suoi dubbi, le sue incertezze, i suoi errori, ma anche la sua tempra, il suo amore per la vita e per la conoscenza. Non è certo compito di una recensione raccontare un libro, occorre solo, a parere di chi scrive, dare il senso dell’emozione che si è provata. Non conoscevo Capograssi se non di nome e per piccole note. Da questo libro ho imparato ad amarlo.

Giancarlo Giuliani


Vincenzo Lattanzi
GIUSEPPE CAPOGRASSI
I sentieri dell’uomo comune
Profilo critico e biografico

Presentazione di Francesco Mercadante
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-742-0]
Pagg. 112 - € 9,00


giovedì 3 maggio 2012

Salotto Culturale Semprevivo: RECITAL "INCANTI" di Marco Tabellione (Venerdì 4 maggio, ore 18:00)

Salotto Culturale Semprevivo
Corso Marrucino n. 33 - CHIETI

RECITAL "INCANTI"
di Marco Tabellione

con immagini e musica

Venerdì, 4 Maggio, ore 18:00


La caratteristica principale della performance è l’utilizzo di basi musicali, che non coprono l’intero arco del recital. La musica, oltre a creare l’atmosfera e aiutare il pubblico a concentrarsi, diventa parte integrante delle poesie, anche perché molte di esse furono da composte ascoltando musica.


BIO-BIBLIOGRAFIA

Marco Tabellione è nato nel 1965 a Musellaro; si è laureato in Lettere moderne all'Università "G. D'Annunzio" di Chieti, con una tesi sulle avanguardie poetiche degli anni Sessanta, discussa insieme al professore e poeta Alfredo Giuliani. In seguito ha conseguito il diploma di specializzazione al corso di Giornalismo e comunicazioni di massa presso la LUISS di Roma. È sposato e ha due figli. È stato vincitore a Perugia nel 1990 del premio di poesia intitolato a Sandro Penna, nel 1998 ha vinto il premio “Giovani autori” curato dalla Fondazione Caripe di Pescara, mentre nel 1999 è risultato primo al premio “Palazzo Grosso” di Riva presso Chieri (Torino) con il volume di poesie "Incanti". Nel 2003 con la raccolta "Tra cielo e mare" è stato designato tra i vincitori del concorso “Adottiamo uno scrittore” indetto dalla provincia di Pescara, e nel 2004 si è classificato secondo al premio abruzzese Sant’Egidio indetto dalla cooperativa Tracce di Pescara. Per le edizioni Tracce di Pescara ha pubblicato nel 1995 la raccolta di poesie "Gli uni e gli altri bui" e il saggio sul giornalismo televisivo "L’immagine che uccide". Nel 1998 è stata pubblicata la sua terza raccolta di poesie "InCanti", sempre per le edizioni Tracce, mentre nel 2000 le edizioni Samizdat di Pescara hanno curato l’edizione della quarta raccolta di versi, "L’alba e l’ala". Nel 2001 è uscito il suo primo romanzo "Il riso dell’angelo" per le edizioni Tracce, mentre risale all’anno 2002 il saggio di letteratura "La cura dell’attimo" edito da Samizdat di Pescara. Nel 2003 è uscita l’ultima raccolta di poesie intitolata "Tra cielo e mare" e pubblicata anch’essa da Tracce. Nel 2009 pubblica il suo secondo romanzo "L’isola delle crisalidi" per le edizioni Runde Taarn di Modena.

mercoledì 2 maggio 2012

Recensione: STORIE DI LETTERE di Sabatino Ciocca


Nel libro di Sabatino Ciocca ben ravvisa Sciarra una ricostruzione dell’epoca, dello stile, del costume, della fraseologia, che conduce a “sviluppi verosimili”, “un’aderenza alla vitalità sana e concreta della cultura popolare che non ha perso i contatti con l’autenticità della vita”. Così come Farias accenna all’ironia come “un’assunzione umile della vita con le sue debolezze”. Più che “bozzetti” queste belle Storie di Lettere sono siparietti del passato scandenti quel grande spettacolo di teatro che è il tempo. Episodi delle vite di illustri abruzzesi (Mazarino, Spaventa, Chiarini, De Meis, la Milli) e no (Manzoni, Freud e Groddeck) vengono rivisitati secondo un principio di verosimiglianza arricchente il referto biografico. Non paradossalmente, visto che nello shakespeariano buio fondale dove scruta l’autore quelle figure un tempo vive, quelle anime, continuano a fluttuare, lacanianamente, grazie alla logica propria dei sogni – il linguaggio.
La ricca esperienza della scena teatrale – dove la parola è viva, è in atto più che nella vita – ha donato a Ciocca una competenza stilistica di tutto rispetto, che del letterario ha gli innumerevoli vantaggi tranne l’auto-referenzialità. Al contrario questa fine meditazione sullo scambio epistolare accentua il valore urgente di una prosa contemporanea come autentico specchio, come “riflessione” sopravanzante la cronaca. Laddove lo scrittore commerciale italiano di turno fallisce nella pretesa di far fronte all’oggetto, scimmiottando la televisione – la retorica, la scrittura di taglio, obliqua, di Ciocca – intellettuale libero – mette a fuoco quel mistero del reale a cui tanti bravi critici letterari odierni evitano di pensare – anche perché non sanno pensare.
Nella fantasia del passato la stessa ironia aleggia in un’accezione non consueta – non è denigrante – è mera irruzione della parola. Dalle cipolle fresche offerte da Greuze alle modelle per realizzare quadri lacrimosi – al fatale inciampo della Milli nel salotto di casa Maffei – al piccione viaggiatore preposto a una triste incombenza a causa della seconda moglie di Manzoni – la verosimiglianza degli spettri di Ciocca dà corpo a uno scalpore scenico che è una vera benedizione per il povero lettore, davvero “consumato” dalla  mostruosa quantità della ridicola letteratura di consumo di oggi.

Marco Tornar





Sabatino Ciocca
STORIE DI LETTERE
Alla scoperta di carte e carteggi più o meno celebri
Cabaret letterario
Edizioni Solfanelli
Chieti 2011
p. 168 - € 12,00
[978-88-7497-734-5]


martedì 1 maggio 2012

Recensione: OCCHI DI RAGAZZO di Emanuele Aurelio

Libro promettente, questo di Emanuele Aurelio. L’impostazione è implicita nel titolo, Occhi di ragazzo: è lo sguardo attento di un giovane che cerca, e a volte trova, consonanze tra se stesso e il mondo esterno. La prima poesia della raccolta, Si è, è già una dichiarazione di poetica, il tentativo di costruire una propria consapevole forma espressiva.
In Nuvole c’è un uso maturo dell’anastrofe, tecnica frequente nei versi di Aurelio, e non mancano interessanti rimandi linguistici, con molta attenzione al suono e alla musicalità del verso. Si perdona qualche incertezza tecnica e a volte è troppo presente l’eco delle proprie letture, cosa del resto inevitabile in un autore così giovane.
Si farebbe però torto all’autore se non si sottolineasse qualche alternanza di stile, qualche forzatura metrica, un uso ripetuto del “ti” e del “ci” (“ti guarda”, “ti porta”...), del tutto sconsigliabile. Qualche finale è rigidamente prosastico (ma nei nostri cuori / sempre sopra starà), appare pleonastico l’ultimo verso di Non andare ed è decisamente ingenuo quel “grazie di esistere” che conclude Non andare. Tutto ciò non mina in alcun modo la potenzialità del poeta, che anzi più facilmente può attuarsi se si confronta con note e osservazioni che nulla tolgono alla validità di fondo di questo esordio.
Vi sono attacchi molto felici, poesie strutturalmente ben poste, momenti efficaci, come in Avarizia (Retta via / per arida acqua / Fumosa scia / per incolmabile disio /Cacciatrice malia / di persone vuote), La Vita (Assisto / stupefatto / al germogliare di una rosa. / Partecipo / instancabile / alla realizzazione di un’utopia), E se.. (un ottimo incipit: E se la vita fosse solo il sogno di qualcuno …), Il mondo gira (E se l’uomo fosse solo un’azione / se l’uomo fosse davvero un agire … , Alla mia professoressa di lettere (Chi arde / non lascia un terreno umido. / Chi è impegnato non sperpera il tempo. / Chi è fervido / non aspetta la grazia divina. / Chi sa fare / può fare. / Ma chi arde troppo rimarrà per un tempo infinito / attonito e stanco. / Scusi le parole beffarde / ma non sono condannatrici / sono consigliere.), Alla mia prof di Arte. In questi testi la raccolta prende vigore, il linguaggio è maturo, lo stile più personale.

Non ci sembra felice la scelta di inserire delle poesie in inglese, ma è una menda perdonabile nel libro d’esordio di un diciannovenne di talento. Lo aspettiamo con fiducia a una prossima prova.

Giancarlo Giuliani





Emanuele Aurelio
Occhi di ragazzo
Calabria Letteraria Editrice 2009
ISBN 9788875741853

martedì 24 aprile 2012

Recensione: LUOGHI di Vito Moretti (Edizioni Tabula fati)

Nell’accostarci ad una sorta di mostro sacro della nostra letteratura contemporanea, non possiamo nascondere una sorta di timore reverenziale. È un dilemma molto forte quello che ci troviamo a dipanare. Da un lato la voglia di dare voce alla nostra sensibilità, accarezzata e deliziata dalle sapienti parole che Vito Moretti ci regala con la sua nuova opera, Luoghi (Tabula Fati, Chieti 2011), dall’altro la paura di apparire inadeguati e inadatti. Un timore reso ancora più cocente dal confronto con i curatori delle note critiche apparse in testa ed in calce all’opera citata.
È Daniele Maria Pegorari, all’inizio di questo percorso, che ci introduce al mondo letterario dell’autore, quasi fosse, appunto, un percorso, da compiere però in punta di piedi, con un pizzico di velata nostalgia. Ripercorre le tappe fondamentali del suo vivere la letteratura, lo incontra per noi nei luoghi della sua vita, che è sua, ma che in qualche modo ci appartiene. Perché Pegorari, con illuminata sensibilità, ci svela un Moretti cantore della propria storia, ma magicamente proiettato in quella dell’intera comunità, la nostra, quella dell’uomo.
Ancora luoghi, quelli visitati dall’altro relatore in calce al libro, Giacomo D’Angelo. Luoghi della memoria di un secolo, il Novecento, che non è ancora finito, almeno a livello letterario. È D’Angelo, con la cultura che lo contraddistingue e lo eleva a voce tra le più autorevoli della critica abruzzese e nazionale, ad accostare Moretti ai grandi della letteratura mondiale del Novecento. E quando diciamo “grandi”, non intendiamo per forza i più famosi o i più osannati dalla critica, anzi! Il commento a Luoghi di Moretti diventa spunto di riflessione e permette di riappropriarsi di una poesia spesso dimenticata, in alcuni casi addirittura celata. Grazie a Moretti, questi luoghi tornano a far sentire la propria voce a volte dissonata, dissacrata, ma anche arsa da incontenibile passione.
Una voce che è voce dell'anima, voce che riempie gli spazi del cuore e li mena raminghi per le strade del mondo. Perché è proprio il “mondo” il protagonista di questo libro di poesie. Poesie che elevano la nostra anima di viaggiatori e ne diventano strumento di indagine e di conoscenza, come dice il già citato Giacomo D’Angelo.
In un mondo in cui la globalizzazione sta diventando sempre più il protagonista assoluto degli schemi organizzativi, Moretti si pone in antitesi all’omologazione dilagante. Riafferma l’identità perduta dei luoghi della memoria, esalta il valore intrinseco e mai perso delle proprie radici, delle dimore del cuore. Ma in qualche modo elabora ed evolve questo concetto, quando a Odessa afferma che “Un uomo ha terra ovunque…”. Ci apre un abisso questa nuova opera di Moretti, ancor più sublime e preziosa in quanto portatrice di domande esistenziali che accompagnano la magia dei nostri luoghi più intimi. E se è vero ciò che dice il poeta, nella splendida dedica al Sud, che “La verità abita i dubbi e li annuncia…”, allora in verità, possiamo affermare senza timore di errore che ci troviamo di fronte ad un’opera imperdibile.
Parola di lettore professionista.


Arturo Bernava


Vito Moretti
Luoghi
Edizioni Tabula fati
Chieti 2011
p. 120 - € 10,00
[978-88-7475-210-2]